1 – VICENDE DI UN MONASTERO

Vicende di un monastero (1/3)

La prefazione di Lorenzo Valenti

Il castello di Billi G. B. Contarini Il monastero

La visita alle monache di clausura, per noi bimbi del paese, era una avventura affascinante. Si entrava quasi furtivamente nel parlatorio esterno e i più coraggiosi si rannicchiavano dentro la ruota facendo un rapido giro per sbirciare uno spicchio di quel luogo inaccessibile e misterioso che era il Convento, grazie a quella improvvisata e magica giostra. Le suore, sentendo il nostro schiamazzare, accorrevano un po’ preoccupate, provando ad ammansirci con carezze, raccomandazioni e ritagli di ostie dal sapore lieve e indimenticato. Vent’anni dopo ebbi l’occasione di presentare – nello stesso parlatorio un volume di Don Amedeo Potito dal titolo, appunto, il Monastero delle Agostiniane di Pennabilli e nei preparativi, a contatto con quell’ambiente, ho rivissuto piacevolmente le stesse sensazioni di austera serenità, accattivante mistero, limpida pace, provate allora. Credo che tali sentimenti siano comuni fra i visitatori del Monastero, anche per chi vive – come me – del tutto immerso nelle cose del ‘mondo’. E’ forse per questo che molti tornano volentieri e parlano a lungo con le suore, chiedendo loro consigli, preghiere, pareri o solo comprensione. Domandano, spesso, anche notizie relative alla storia del Convento ma le nostre sorelle non hanno da presentare che il volume di Don Potito. Quest’ultimo si risolve in una riproduzione in serie di documenti antichi di difficile lettura ed interpretazione, per cui il lettore o non vi si accosta o presto si stanca. Di qui l’offerta del tipografo Luigi Casiraghi di Biassono che, provvedendo alla ristampa del testo, ne ha proposto la riduzione in lingua d’uso a Palmiero Caroni, anch’egli legato alle nostre monache da lunga e affettuosa familiarità. Ecco quindi le due storie, pervenuteci dai documenti di Don Potito, che vengono in tal modo riproposte per una più agevole lettura: una del 1744, di G.B. Contarini; l’altra, degli inizi del ‘900, probabilmente scritta da una Badessa. Abbiamo ritenuto opportuno che la storia religiosa della Comunità fosse preceduta da alcune note relative al Castello di Billi, nel cui ambito è situato il Monastero; dalle indispensabili informazioni sull’autore G.B. Contarini e da qualche curiosità sulla vita attuale del Convento.

1) IL CASTELLO DI BILLI

Un documento inedito I Castelli di Penna e dei Billi fanno arbitro sulle loro differenze. Rog.o di Francesco Paponi 18 luglio 1453. Cum certa lis quaestio vel differentia vertetur et esset inter Comunem et Homines Castri Pennae ex parte una, et Comunem et Homines Castri Billorum ex parte altera occasione possessionum hominum et personarum dictorum Castrorum qui Habent eorum possessiones in curiis ipsorum Castrorum, videlicet Homines Castri Pennae in Curia Castri Billorum, et Homines Castri Billorum in Curia Pennae et etiam extimorum dictorum Hominum et Castrorum praedictorum, et etiam occasione collectarum et gravaminum occorrentium in dictis Castris (..) Ideo (..) praesentes Viri Ser Angelus Bartoli de Carbonibus de cicto Castro Pennae tanquam Sindicus et Procurator dicti Communis et Hominum dicti Castri Pennae (…) et Cristophorus aliter Romagnolus Nicolai Lutii de dicto Castro Billorum tamquan Sindicus dicti Castri Billorum (…) ipsi unanimiter et concorditer dicro sindacario et procuratorio nomine (…) dictas eorum lites et discordias (…) compromiserunt et compromissun fecerunt in eximium et famosum utriusque Juris doctoris Dominum Jacobum de Anastaxiis de Burgo onorandum Vicarium gabellarum Communis Arimini ibidem praesentem et acceptantem (…) Actum Arimini in pubblicis gabellis ad bancum iuris gabellarum praesentibus (…) Et ego Franciscus de Paponibus.

Questo rogito, a quanto risulta mai citato dagli storici feretrani, che ho potuto rintracciare grazie ad una indicazione di Giovanni Rimondini nell’Archivio di Stato di Rimini, nel quale i comuni distinti di Penna e Billi stipulano una transazione avanti ad un noto funzionario dei Malatesta circa i dissidi sorti sulla valutazione degli estimi in occasione dell’unione dei due castelli, fa nuova luce su di un punto fondamentale della storia di Pennabilli – e conseguentemente del castello di Billi – , posticipando di circa cento anni l’effettiva fusione delle due comunità.

Per quel che se ne sapeva infatti l’autonomia del castello dei Billi spariva circa nella metà del Trecento con il formale accordo stretto nella piazza del mercato ove la leggenda vuole presente una “pietra della pace” nel punto in cui oggi si trova la fontana. Unione non senza pochi strascichi, visto che anche Paolo Mattei Gentili nel suo Compendio storico cita una pergamena del 6 dicembre 1369 ove “gli uomini di Penna e di Billi compromettevano nel loro vicario Ser Menoccio Spavaldi da Bologna, tutte le differenze che nate da odii invecchiati o da dispiaceri sorti in fatto alla fusione dei castelli, dalle parti amichevolmente composte”.

Il nuovo documento, tuttavia, merita un approfondimento ulteriore da parte di esperti medievalisti ai quali lo segnalo disposto a fornire copia integrale, poiché sposta la fine dell’autonomia amministrativa del castello di Billi di almeno un secolo.

Questo dato temporale sinora non conosciuto ci sembra rilevante per valutare la significativa importanza delle istituzioni comunali anche di un piccolo centro come quello di Billi che sa mantenere la propria autonomia nonostante l’avvenuta unione con il castello prospiciente.

Billi (come Penna sul Roccione) era sorto qualche secolo prima, sulla emergenza rocciosa della rupe con funzione di rifugio e di fuga, ad opera di abitanti della valle sottostante.
Questi ultimi infatti come vuole la tradizione storiografica montefeltrana e pennese, utilizzarono le caratteristiche del luogo naturalmente munito, per sfuggire alle invasioni barbariche dopo aver abbandonato nel sec. V-VI due vici di origine forse umbra o etrusca sviluppatisi poi, in tempi di maggiore sicurezza sociale e di più aperta economia, rispettivamente nei pressi del fondovalle e sulle prime colline: Billi (detto, appunto, “vecchio”) e Messa. A partire dall’XI secolo, le due fortificazioni, localizzate in posizione strategica e di confine tra feudi e signorie rivali, vengono probabilmente costruite, come altrove nel Montefeltro, secondo una semplice andamento di mura bastionate – spesso utilizzando palizzate e terrapieni – e nucleo interno di residenza.

Il Clementini, storico riminese, -non sappiamo con quale attendibilità- ci tramanda infatti che “dai libri di Penna risulta che nel 1004 il Malatesta agli operai addetti alle costruzioni della Rocca del Roccione dava 4 quattrini al giorno e le spese, o, senza il vitto dai 5 ai 6 quattrini”. Possiamo ragionevolmente pensare che la costruzione della Rocca dei Billi avvenisse circa nello stesso periodo.
La probabile continuità di dominio dei Malatesta, non ostacolò la formazione dei comuni vicini, e certamente rivali, di Penna e Billi, la cui storia è tutta da ricostruire. I danni provocati dalle rivalità e i benefici di una pacifica convivenza, nonché certamente, gli interventi dei signori e delle autorità ecclesiastiche, stimolarono il processo di unificazione. Il fenomeno di fusione fisica e giuridica dei due centri andrà meglio indagato; tuttavia va pensato con caratteri di gradualità e momenti regressivi e di ripensamento.
Billi, dopo le descritte vicende relative all’unione, anche se non più autonomo amministrativamente, pulsa tuttavia di vita propria. Nella raffigurazione della città nel noto dipinto dell'”Apparizione della Madonna”, presenta ancora una buona densità abitativa e una Rocca ancora relativamente integra. Di certo, al contrario di Penna, Billi era ostacolato nel suo sviluppo urbano dalla natura impervia e difficilmente edificabile del luogo e pertanto resta a lungo congelato nella sua configurazione altomedioevale.
Vi si accedeva da un viottolo scosceso che conduceva all’unica porta, probabilmente situata a fianco di quella esistente e forse munita di ponte levatoio. Le imponenti mura del castello vennero, nel tempo, conglobate alle abitazioni e utilizzate come base per la loro sopraelevazione. In una pietra cantonale del corpo centrale dell’attuale convento – ovviamente è riportata e capovolta – visibile solo con un binocolo, sono incisi dei numeri. Sembra trattarsi di una data 1416.Possiamo così pensare che sotto Carlo Malatesta, che governò Pennabilli dal 1406 al 1425, venisse costruito un edificio importante all’interno del nostro castello. Sicuramente nel 1457 venne eretta una ‘superba torre’ a controllo della porta d’ingresso, oggi mozzata e provvista di un tetto obliquo in laterizi.

Alcuni anni dopo Federico Montefeltro, sconfitto Sigismondo Malatesta, impone il suo stemma di Duca anche al castello di Billi, come ad ogni altro nel Montefeltro. Lo fa murare, con ogni probabilità, sopra la porta allora esistente.
Un enigma è lo stemmino visibile sotto il cornicione nella facciata d’entrata al Convento; sembra proprio uno stemma degli Oliva simile ad esempio a quello di Petrella Guidi. Ma perché a Pennabilli ove gli Oliva non figurano mai? Non azzardo alcuna ipotesi se non quella, suggestiva, di una Badessa di quella famiglia che con il proprio patrimonio ha ristrutturato in qualche secolo il Monastero.
Il castello e la rocca, che avevano una ampia cisterna per la raccolta delle acque piovane, subirono il 17 febbraio del 1517 il loro unico sicuro, assalto da parte dei fiorentini:

“I quattromila fanti in ben tre schiere
strinser l’assedio, e a sette a sette
ciascun gruppo tentò scalar le mura.
Raggiunto aveva già la prima schiera
il Castello de’ Billi e le sue porte
percosse e rotte ormai cadon a terra;
e a piedi scalzi tenta arrampicarsi
un folto stuol che la virtù billese
rigetta con il grandinar di sassi.

(Giacomo Mastini – 1523, Trad. di Monsignor Luigi Donati)

L’anno dopo e cioè nel 1518, Giovanni Lucis, cittadino “billese” fonda questo monastero -come vedremo più diffusamente in seguito nell’opera di Contarini- e pone il suo stemma con due lucci, appunto , all’entrata del castello mentre un altro in ceramica, colorato, è situato all’interno del monastero su di un camino.
Sempre di quell’anno è la richiesta fatta dalle sorelle monache di utilizzare pietre “dalla distruta rocca” sovrastante per costruire la propria chiesa, richiesta che viene accolta da Lorenzo de’ Medici: cosi venne ulteriormente manomessa la rocca già in quell’anno parzialmente “diroccata”.

Il torrione a destra della porta d’entrata al Castello acquisterà in quel periodo, per una supposta prodezza balistica nell’assedio dei fiorentini, il suo nome definitivo: torrione Bistolli, dal cognome di un pennese che di lassù uccise con una archibugiata un capitano toscano. Francesco Mingucci nella sua nota riproduzione secentesca di Pennabilli, ci figura un Billi ancora popolato con una chiesa oggi scomparsa identificabile nell’attuale granaio del Convento dove, peraltro, è presente un affresco di S. Pietro Benedicente.

Un’altra veduta della rocca dei Billi poco conosciuta e databile 1857 è quella del quadro della Madonna Assunta con S. Leone e S. Pio Quinto del duomo di Pennabilli opera di Alessandro Luzzi Romano (“di anni 24” come egli indica accanto alla firma), ove vediamo le mura del castello ancora integre e, fra le altre, la cosiddetta Porta ai Billi voluta dal Cardinale Omedei nel 1658, La storia del castello negli ultimi due secoli diventa progressivamente stona del solo Convento senza rilevanti modificazioni strutturali, e vede gli ultimi residenti andarsene qualche anno fa.
Il castello, i ruderi della rocca e il convento sono oggi diventati meta di passeggiate che vorremmo agevolate con la costruzione di nuovi percorsi di accesso a partire; ad esempio, dall’odierno Orto dei frutti dimenticati (già orto di S. Filippo) come prevedeva l’ing. Ferri nel piano particolareggiato per il centro storico. E non vogliamo pensare che il robusto cancello posto qualche anno fa all’ingresso della porta del castello possa servire domani ad interdire l’accesso ad un luogo così importante e caro a tutti.

2) GIOVANNI BATTISTA CONTARINI

Il piccolo tomo Breve ragguaglio della prima origine del Monastero delle suore Domenicane della Penna, cavato dalle antiche Scritture, Urbino 1744 nella Stamperia del SS. Sacramento, è opera del domenicano Giovanni Battista Contarini (o Contareni). Nato a Venezia il 12 settembre 1696 e ivi morto il 16 gennaio 1779, fu battezzato coi nomi di Giovanni Antonio. Entrato nella Congregazione dell’ordine dei predicatori del Beato Giacomo Salomoni, gli fu imposto il nome di Francesco Giovanni Battista Maria.
Il Contarini era arrivato in Pennabilli intorno al 1740 in qualità di teologo dell’allora Vescovo della Diocesi di Montefeltro Monsignor Grisostomo Calvi, appartenente alla sua stessa Congregazione. Venne nominato in sostituzione di un altro domenicano, Pier Antonio Calvi nipote del Vescovo, che si era impegnato nell’aspra polemica fra pennesi e leontini per la cattedra episcopale. Disputa di risonanza addirittura internazionale con il coinvolgimento delle cancellerie europee, che ebbe il merito di sollecitare gli eruditi ad approfondire gli studi e documentare, anche se non sempre con rigore scientifico ed onestà intellettuale, le opposte tesi.
Anche il Contarini si impegnò a fondo sul tema della sede vescovile pubblicando la sua De Episcopatu Feretrano Dissertatio ove, in 183 pagine dà prova di aver approfondito studi e questioni montefeltrani. L’opera, di prima importanza nel quadro della storiografia feretrana, venne edita a Venezia nel 1753 dopo che il Contarini ebbe lasciato Pennabilli, sin dal 1746, per altri incarichi.
Lo storico domenicano diede alla luce varie altre opere, di carattere sacro e agiografico: panegirici, sermoni e vite di santi. Per quel che concerne la nostra diocesi, egli ha pubblicato, oltre ai testi già citati, anche una Orazione sacra sopra le lacrime miracolose sparse dall’immagine di Maria Vergine, che serbasi nella chiesa di San Cristoforo della città della Penna, recitata nel terzo venerdì di marzo 1740, Venezia 1741, e La vita del beato Domenico Spadafora de’ Predicatori, Urbino 1744 nella Stamperia dei SS. Sacramento.
Il suo interesse per la vita monastica è testimoniato oltre che dal presente Breve ragguaglio anche da due sermoni pubblicati in una Raccolta di panegirici ed altri sermoni sacri edita a Udine nel 1738, ove intende, fra l’altro, dimostrare: “di come le religiose nella Povertà sono più ricche; per la Castità sono più felici; sotto all’Ubbidienza sono più libere”.

Nella sua breve permanenza pennese venuto evidentemente a contatto con le religiose del nostro convento ed avendo modo di consultare i documenti, volle stendere il presente lavoro per far luce “… sull’oscurità in cui giaceva la prima origine di questo convento” e per stabilire “…il tempo, e modo, in cui fu alla religione nostra Domenicana aggregato”, non potendo immaginare che le sue monache sarebbero in seguito divenute agostiniane.

3) IL MONASTERO DELLE AGOSTINIANE

Le due storie presentate in questo volumetto narrano gli avvenimenti del Monastero dalla fondazione sino agli inizi di questo secolo. Da allora solo l’interno del Monastero, sconosciuto anche agli stessi pennesi, ha subito alcune modifiche. I vari piani del Convento sono collegati da uno scalone principale che dà accesso al corridoio su cui si aprono le celle, ristrutturate nel 1920, sobriamente arredate. Numerose opere del Monastero sono state trasferite nel Museo Feretrano, in particolare alcuni dipinti come una Flagellazione e incoronazione di spine di Felice Damiani pittore della fine del ‘500 (1584 lo06), una Madonna orante di autore ignoto (1700), un Ecce Homo di autore ignoto con cornice databile al sec. XVII, una Madonna col Bambino cui, per pudore, è stata dipinta la veste; E ancora una cassapanca dipinta nel ‘700, probabilmente dotale, sei vasi in cotto con lo stemma del Vescovo Begni col motto “Utroque lucet” e infine i preziosi lavori delle monache come le vesti per la Madonna del Santuario delle Grazie e, fra queste, una particolarmente cara ai pennesi perché commissionata nel 1781 in ringraziamento dello scampato pencolo per il terremoto.
Ma la storia del Convento, che al di là delle date e dei riferimenti storici, è soprattutto stona di carità e spiritualità, passa anche attraverso l’ultima guerra, quando diventa rifugio e salvezza per bambini e bambine, di cui, qualcuna, per la cura e l’amorevolezza delle Monache, decide di restarci per sempre.
Oggi le monache sono sei e voglio qui citarle tutte: Suor Vittoria da Cesena Badessa, Suor Veronica da Rimini Vicaria, Suor Paola da Milano Economa, Suor Michelina da Maciano, Suor Cecilia da Carpegna e Suor Celeste da Bologna.

Appartengono alla famiglia delle Agostiniane e la loro gerarchia interna è democraticamente stabilita con votazione quadriennale.

Come tutti sanno la regola della clausura è rigida e le monache, fuori, le vediamo solo per le elezioni, mentre nel parlatorio sono ben contente di ricevere chi ha bisogno del loro aiuto.

Le religiose, ora iscritte all’albo degli artigiani, svolgono su ordinazione -con prenotazioni anche biennali- restauri su arredi sacri e lavori di ricamo d’uso domestico (tende, tovaglie, coperte, etc.). Vivono vita di preghiera ed intensa spiritualità e facilmente si resta contagiati dalla serenità che si legge loro in viso. Fra l’altro mi assicurano, beate loro, che non guardano mai la televisione. Tuttavia conoscono bene ‘il mondo’ dato l’intenso rapporto con la gente fatto di visite e corrispondenza. Inoltre non è raro che affrontino delicati casi di coscienza, spesso risolvendoli.

Voglio qui concludere con una nota poetica dedicata alle ‘nostre’ monache e a tutte quelle giovani che nel corso dei secoli hanno intrapreso l’impegnativa strada della vita monastica trascorrendo la loro intera esistenza nelle mura del nostro convento.

E’ tratta dal volumetto Alla magnanima risoluzione della Gentil Donzella Signora Marianna Borsari che veste l’abito religioso di S. Domenico nell’insigne Monastero di S. Antonio da Padova della Città di Penna con assumere i nomi di Suor Maria Serafina Colomba Fedele Domenica Caterina, Rimini MDCCXCIII, ed è opera del Sig. D. Luigi Mattei-Gentili, Canonico della Cattedrale della Città di Penna:

XV SONETTO

Gioja, felicità, contento, e pace,
Cose di nome solo al mondo note,
Ond’è, che ognor vi cerca, e raro puote
trovarvi l’Uom ne’ suoi desir fallace?

Promette il Mondo vantator mendace,
Ma noja, affanno, e duol se ne riscuote:
Lusinga il senso, e poi ne reca in dote
D’un amaro pentir cura mordace.

Vergine avventurosa, gl’innocenti
Affetti tuoi a giusta meta hai scorto;
Questo è asilo di pace, e di contenti.

Fra queste mura troverai conforto:
le sue tempeste han esse ancor, ma senti:
Siam navi, il Mondo è un Mare, il Chiostro un Porto.

Pennabilli – Rimini, gennaio 1995.

VICENDE DI UN MONASTERO: gli altri capitoli:
0 – Inizio
2 – Le origini del monastero
3 – Continuazione delle memorie sul monastero

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