PENNABILLI E IL TIBET

Pennabilli e il Tibet

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La Storia di Fra’ Orazio della Penna

Brevi note sulla vita di padre Francesco Orazio Olivieri della Penna (1680-1745),
missionario Cappuccino e Prefetto della Missione in Tibet (di Elio Marini)

Padre Francesco Orazio nasce a Pennabilli nel 1680, ultimo di tre fratelli, dalla nobile famiglia degli Olivieri. A 20 anni, terminati gli studi classici, entra nel monastero dei Cappuccini di Pietrarubbia. Durante il suo periodo di noviziato la Sacra Congregazione di Propaganda Fide decreta lo stabilimento di una missione nel Tibet. L’ordine dei Cappuccini della Marca di Ancona (l’attuale regione Marche) viene destinato a fornire i missionari (1703). I confini di questa nuova unità ecclesiastica, a causa delle scarse conoscenze geografiche sono vagamente descritti. Il decreto infatti estendeva la nuova missione “..in direzione delle sorgenti del Gange verso il regno del Tibet..”. I primi missionari partono nel 1704 e dopo inenarrabili fatiche giungono a Lhasa il 12 giugno 1707. Alla fine del 1711 Padre Domenico da Fano, prefetto della missione, decide di ritornare a Roma; la vita in Tibet è durissima, i padri sono senza soldi e rischiano di morire di fame. A Roma la missione viene riorganizzata. Viene decisa l’apertura di stazioni missionarie a Chandernagore nel Bengala, a Patna sulla via del Nepal, a Kathmandù e naturalmente Lhasa. Nell’autunno del 1712 partono nuovi missionari alla volta di Lhasa, tra questi il Padre Francesco Orazio Olivieri della Penna, che sarebbe poi divenuto la colonna portante della  missione, la più forte personalità della sua storia e l’ unico tibetologo degno di questo nome. Il 1 ottobre 1716 i padri sono di nuovo a Lhasa, dove incontrano il pistoiese padre Ippolito Desideri, un gesuita arrivato qualche mese prima. Riprendono l’opera di evangelizzazione e di pratica medica, ed il prefetto ricevuto dal Reggente Lha-bzan Khan gli spiega chiaramente il motivo della loro missione. Il reggente, comprensivo ed interessato, li invita prima di tutto a perfezionarsi nella lingua. A tale scopo il Padre Orazio della Penna ed il gesuita padre Ippolito Desideri si stabiliscono nel grande monastero-università di Sera. Un Lama istruito viene loro assegnato come maestro. Qui i due padri possono apprendere la lingua colta, discutere liberamente con gli altri monaci ed avere libero accesso all’importante biblioteca del monastero. La Messa viene celebrata all’interno del monastero ed il resto della giornata è impiegato in studio e discussioni. I due preti cattolici vivono a stretto contatto con monaci di un’altra religione dividendo lo stesso cibo e la stessa vita monastica. Un raro esempio di adattamento. Orazio rimane al monastero di Sera per circa nove mesi, da aprile 1717 fino al gennaio 1718.

Comunque per un periodo di quattro anni continua a studiare la lingua comune e letteraria sotto la guida di un lama istruito. E’ al monastero di Sera che padre Orazio incomincia la compilazione di un dizionario Tibetano-Italiano, fatto direttamente sui testi tibetani e quindi riferentesi alla lingua letteraria.

Nel 1732 il dizionario consiste di circa 33000 vocaboli. Passata la bufera dell’invasione dzungara (1717-1720) i padri sono ben conosciuti a Lhasa. Il “Lama testa bianca”, così era chiamato il Padre Orazio, si è molto perfezionato nella lingua tibetana sia scritta che parlata, è in buoni rapporti con il Dalai Lama e K’an-c’en-nas il nuovo reggente. L’altro Cappuccino, Padre Giovacchino da S.Anatolia, esercita con successo e gratuitamente l’arte medica. Il popolo li conosce e li rispetta; tutti i documenti fanno gli elogi dei due missionari: “… non hanno compiuto alcuna specie di azione cattiva neppure quanto la radice di un capello” … “Voi che siete venuti da molto lontano con la mentalità che non è rivolta a cibo, guadagno, fama, donne e sostentamento siete riusciti di grande utilità a molte creature…”. Per circa dieci anni i due padri rimangono soli a Lhasa e con il credito di cui disponevano ottengono speciali concessioni per uno straniero; come il permesso per acquistare un terreno dal governo ad un prezzo simbolico per erigervi il convento e la chiesetta (1725). E’ questo un periodo prolifico per importanti opere letterarie di Padre Orazio. Traduce il Lam-rim-c’en-mo (Le tre grandi vie che conducono alla perfezione) di Tson-k’a-pa, la Vita del Buddha, Il libro tibetano dei morti, ed altre importanti opere. La guerra civile del 1727-28 non porta serio danno alla missione. P’o-lha-nas, il nuovo reggente, conosce il Padre Orazio da vari anni e conferma i privilegi della missione. I cappuccini continuano a frequentare la corte e la loro attività missionaria limitata praticamente agli stranieri non da fastidio a nessuno. Ma a Roma sembrava si fossero dimenticati di loro e Orazio, che comincia ad avere problemi di salute, decide di scendere in Nepal e di qui, si risolve di tornare a Roma, dove giunge nel 1736, per chiedere aiuto. A Roma riesce ad ottenere l’interessamento del Card. Belluga, un prelato spagnolo che lo aiuta a riorganizzare la missione su basi finanziariamente solide. Oltre i fondi necessari viene anche fabbricata una completa stamperia tibetana i cui caratteri sono incisi su indicazioni di padre Orazio stesso. Viene curata anche la preparazione diplomatica, con la spedizione di due brevi pontifici al Dalai Lama e P’o-lha-nas accompagnati da ricchi doni.

Nell’ottobre 1738 la nuova spedizione lascia l’Italia per giungere in India nel settembre del 1739.

Dopo un duro viaggio Padre Orazio e altri tre confratelli giungono a Lhasa il 6 gennaio 1741. Viene recuperato l’ospizio e nel mese di settembre vengono ricevuti prima dal reggente e pochi giorni dopo al Potala dal settimo Dalai Lama. Entrambi concedono un documento con cui si garantisce ai missionari la libertà di culto e proselitismo. La missione, disponendo di uomini e mezzi come non ne aveva mai avuti fino allora, svolge nei mesi seguenti un’intensa attività di propaganda scritta e orale. Padre Orazio scrive e stampa lettere ed opuscoli di confutazione della religione tibetana, traduce la Dottrina Cristiana ed altre opere a carattere religioso. Vengono convertiti una ventina di tibetani tra uomini e donne. Ma la nuova comunità cristiana urta subito contro un ostacolo forse non previsto dai missionari: la inestricabile connessione tra vita civile e religiosa che esiste nel Tibet. E quando i nuovi convertiti tibetani si rifiutano di accettare la benedizione del Dalai Lama e di partecipare alle preghiere lamaiste a cui erano obbligati a titolo di corvée dovuta allo stato (‘u-lag), la questione assume un aspetto politico ed intervengono i tribunali. Dopo un lungo processo il 22 maggio 1742 cinque cristiani tra uomini e donne sono fustigati sulla pubblica piazza.

Il colpo è durissimo e segna l’inizio della fine. Si fa subito il vuoto attorno ai missionari. Grazie all’abilità diplomatica, ed all’ascendente personale, Padre Orazio riesce a ricucire i rapporti con la corte e ad essere ancora ricevuto in udienza sia dal reggente che dal Dalai Lama, ma ormai è chiaro che la missione non ha futuro e il 20 aprile 1745 gli ultimi missionari lasciano la capitale alla volta del Nepal. Subito dopo l’uscita

dei missionari il convento viene distrutto dalla folla eccitata. Si salva soltanto la campana che viene trasportata nel Jo-bo-k’an, dove tuttora è appesa. Orazio arrivato quasi moribondo in Nepal sembra prima riprendersi, poi alla notizia della distruzione della Chiesa di Lhasa muore di scoramento a Patan il 20 luglio 1745 all’età di 65 anni, dei quali 33 dedicati alla missione tibetana.

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La visita del Dalai Lama a Pennabilli

La mattina del 15 giugno 1994 Sua Santità Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, ha visitato Pennabilli, città di Padre Orazio, in occasione del 250° anniversario della morte del missionario che visse a Lhasa dal 1716 al 1732 e dal 1741 al 1745. Dopo una cerimonia di benvenuto, mentre dalle finestre del centro storico scendeva una pioggia di petali colorati, Sua Santità ha scoperto una lapide sulla facciata della casa natale del frate cappuccino. Ha visitato in seguito una mostra documentaria sull’opera di Padre Olivieri in Tibet e messo a dimora un gelso nell’Orto dei frutti dimenticati. Centinaia di persone raccolte in piazza Vittorio Emanuele II hanno ascoltato commosse le parole del Dalai Lama ed un applauso fragoroso ha salutato i rintocchi della campana di Padre Orazio registrati in Tibet.

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Il discorso del Dalai Lama
pronunciato in piazza V. Emanuele II in Tibetano
e tradotto in simultanea da Luca Corona, interprete ufficiale italiano del Dalai Lama.

“Vorrei ringraziare le autorità, il Sindaco, il presidente della Provincia, il prefetto e particolarmente il rappresentante dei Cappuccini e il mio amico Nunzio Apostolico (Arciv. Pietro Sambi, Nunzio  Apostolico in Indonesia) per avermi dato la possibilità di incontrarvi in questa occasione così importante, perché ci ricorda un evento della storia veramente degno di essere ricordato.Arrivando qui devo dire che ho provato una forte emozione, una nuova emozione, qualcosa di mai provato prima, un’esperienza intensa.Da una parte mi sono venuti in mente gli avvenimenti di 250 anni fa, dall’altra parte mi sono anche ricordato di quanto è cambiato da quel periodo, da quei tempi, ad oggi.E quel vostro concittadino che visse 250 anni fa, Orazio della Penna, era senza dubbio una persona fuori dal comune, in quanto dotato di grande coraggio e grande determinazione.E inoltre l’aver visto una foto della campana che egli portò a Lhasa e soprattutto aver sentito il suono di questa campana mi ha dato una sensazione veramente molto intensa, soprattutto per il fatto che da molti anni non vedo più il mio Paese.Di fronte a me,  su questa collina è il simbolo, la Croce, di una delle grandi religioni del mondo e appena sotto sono le bandiere di preghiera tibetana, simbolo anch’esse di una delle grandi religioni del mondo, il buddismo.E poi, visto da qui, il convento sembramoltissimo uno degli eremi del Tibet.
Quindi, in un ambiente cosi significativo, ci siamo ritrovati tutti insieme, persone appartenenti a diverse culture, diverse razze, diversi credo religiosi, e ci siamo dimenticati di queste differenze, ci siamo ritrovati tutti insieme e ci sentiamo tutti uniti da qualche cosa e penso che questo sia un momento veramente straordinario.Io penso, e in genere lo ripeto continuamente, che è proprio quel sentimento di simpatia di affetto che si può avere gli uni nei confronti degli altri, chehanno il potere di risolvere i problemi del mondo. Mentre invece se questo sentimento manca, se l’amore verso il prossimo non è sufficiente, allora benché tutti noi siamo esseri umani e allo stesso modo dipendiamo strettamente gli uni dagli altri, a questo buon sentimento si sostituisce invece un atteggiamento egoista e quindi l’interesse a fare del male agli altri per potere ottenere il proprio vantaggio. Ecco che quella è proprio la causa di ogni problema e alla base di ogni conflitto di questo mondo. Se noi vogliamo veramente promuovere la pace dobbiamo assumerci la responsabilità di questo.Quindi oggi, dalla ricorrenza di eventi avvenuti 250 anni fa, penso che possiamo trarre due insegnamenti principali.
Il primo insegnamento che possiamo trarre è il seguente: pensate a quest’uomo, 250 anni fa, di questo piccolo paese, che da solo partì per l’Oriente, allora, superò la grande catena dell’Himalaya, arrivò in questo lontanissimo paese, il Tibet, rimase là lunghi anni, studiò la lingua, studiò la cultura e compose, come prima accennava il Frate Cappuccino, il primo dizionario tibetano italiano, che poi venne usato in tempi successivi da diversi studiosi quindi, guardate come una persona, al momento in cui riesce a generare un forte coraggio e una forte determinazione, riesce a fare delle cose così grandi. Ecco, questo credo sia il primo insegnamento, la cosa di cui noi tutti ci dobbiamo ricordare quando ci sentiamo scoraggiati e pensiamo: ma io sono solo uno, anche se ho queste aspirazioni, come faccio io da solo a raggiungerle. Ecco, questo è un atteggiamento sbagliato, bisogna proprio, prendendo esempio da questi uomini, da uomini come Orazio della Penna, generare un forte coraggio e appunto una forte determinazione.
Il secondo insegnamento che possiamo trarre, considerando l’epoca in cui questo viaggio avvenne, è che allora le varie nazioni, i vari gruppi umani, erano molto isolati, tanto più questo valeva per il Tibet, d’altra parte la sua posizione geografica stessa lo isolava dai contatti con le altre nazioni, la grande catena dell’Himalaya a sud, le regioni montagnose dell’est, i grandi spazi disabitati del nord e quest’uomo invece viaggiò, superò tutte queste difficoltà, arrivò nel paese, studiò la cultura e soprattutto creò questa relazione di armonia con i governanti e i religiosi del Tibet e questa è una cosa estremamente importante e che vorrei sottolineare.
Io ho visto un documento scritto dal leader tibetano di quel momento, Mivagn Polonas, che osannava le qualità di questi missionari. Certo, è vero, che la ragione per cui essi viaggiarono nel Tibet fu per diffondere la religione cattolica, però non fecero solo questo, quello che loro fecero e che appunto mi colpisce di più è proprio questa opera di studio che riportò alla comprensione ed eventualmente all’armonia fra questi due credo religiosi.
Ecco, questo avvenne 250 anni fa, in quella particolare situazione. Oggi, per noi invece possiamo comunicare molto più facilmente, viaggiare, incontrarci come e quando vogliamo, questo diventa molto più semplice e quindi bisogna trovare continuamente occasioni per farlo.
I giorni scorsi pioveva molto, mentre invece oggi il sole picchia, quindi non mi voglio dilungare troppo, perché altrimenti questo potrebbe crearvi dello sconforto. Vorrei ancora ringraziare tutti quanti, vorrei ringraziare soprattutto il Sindaco (ing. Roberto Busca) perché quando l’ho visto, quando ci siamo incontrati, ho proprio sentito da lui questo forte sentimento di amicizia e vorrei anche ringraziare il Rappresentante dei Cappuccini (padre Angelico Violoni) per le parole che ha detto nel suo discorso, soprattutto del suo desiderio, della sua preghiera che il Tibet non diventi come la Bosnia, ecco questa è una cosa che mi ha profondamente colpito; lo ringrazio.
Volevo anche ringraziare del momento di ilarità che è stato poc’anzi provocato dalla chiave sparita*”.

* La simbolica ‘Chiave della città’ che è stata consegnata a S.S. Tenzin Gyatso soltanto dopo alcuni minuti dall’annuncio perché… non si trovava più.

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Ritrovato il dizionario italo-tibetano di Padre Orazio
Era in una cassa polverosa a Calcutta
(da Il Resto del Carlino ed. Rimini, del 2 gennaio 1999)

‘Da Calcutta un grande sorriso per i miei ‘sponsor’, la mia gioia è incontenibile. L’emozione ed il batticuore di oggi (mercoledì 23 dicembre 1998) alle 11.30 quando ho aperto l’involucro che conteneva il primo dizionario Tibetano-Italiano mi hanno riportato alla mente i ricordi più belli della mia vita. Sebbene il manoscritto sia provato dagli insetti che lo stanno divorando riconosco la calligrafia di Orazio…’.
Sembra una cronaca di un viaggio di scoperta del secolo scorso e invece è un modernissimo e-mail ricevuto da Elio ‘Lilly’ Marini dall’India. Ma anche oggi evidentemente è possibile vivere una emozione alla Livingstone o alla Tucci quando la passione, la perseveranza e il gusto della ricerca divengono, come nel caso di Marini, una componente essenziale della propria esistenza.
Diciamo subito che si tratta di una scoperta di grandissimo rilievo anche alla luce del grande interesse che la cultura tibetana sta conoscendo in tutto il mondo. Sembra impossibile ma il primo occidentale che nel lontano 1730 si è preso la briga di compilare un vocabolario Italiano-Tibetano di ben 33mila vocaboli, fu proprio un nostro conterraneo: frate Orazio Olivieri da Pennabilli. Egli agli inizi del XVIII secolo, fu inviato a evangelizzare le remote ed inospitali terre del ‘Thibet’ e fu tale la stima e la considerazione che si guadagnò tra i religiosissimi tibetani che venne chiamato ‘Lama Testa Bianca’ per il colore dei suoi capelli.
Al professore Marini, che insegna e vive a Rimini, ma è un naturalizzato ‘pennese’, questa storia del frate cappuccino suo conterraneo che due secoli e mezzo fa andò ad evangelizzare il Tibet, lo ha sempre affascinato. Direi ‘fulminato’ in una ostinata volontà di saperne di più e di scavare attorno a questa affascinante figura.
Del vocabolario si erano perse le tracce da più di centocinquant’anni mentre si sapeva di una campana fusa a Roma e portata a Lhasa da Orazio dove era conservata nella cattedrale del Iokhang. La campana fu ritrovata nel 1994 da Silvio Aperio, emissario di Marini a Lhasa, ed il suo suono fu registrato. Quando il Dalai Lama venne a Pennabilli in visita nel 1994 i rintocchi riempirono la piazza gremita e silenziosa mentre il Dalai Lama ascoltava sorpreso e visibilmente commosso.
Ma era il vocabolario, che fra l’altro fu copiato pari pari da un inglese che senza fatica si ritrovò compilatore del primo dizionario Inglese-Tibetano, che si era smarrito nei meandri delle pianure indiane.
E’ una bella storia. Di quelle che danno sapore e spessore all’esistenza e ci fanno riflettere sul valore della conoscenza e dei rapporti antichi e amichevoli tra civiltà diverse. Speriamo che l’apertura mentale e la lungimiranza di coloro, istituzioni, banche e quant’altro, che dovranno aiutare Marini a testimoniare un evento storico, faccia sì che il prezioso documento arrivi alla ‘Penna’ e che sia ancora una volta un segno di amicizia e fratellanza dell’Italia di oggi con il martoriato Tibet.

(Claudio Cardelli)

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A cura di Elio Marini

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